IL CANTO DEL CIGNO DEL LACANISMO ITALIANO
Sul piano dei modi di pensiero delle popolazioni contemporanee, la prima causa della decadenza dipende chiaramente dal fatto che qualunque discorso mostrato nello spettacolo non lascia nessuno spazio alla risposta: e la logica si era formata socialmente nel dialogo. Inoltre, quando si è diffuso il rispetto verso ciò che parla nello spettacolo, che si suppone importante, ricco, prestigioso, che è l’autorità stessa, si diffonde anche la tendenza tra gli spettatori a voler essere illogici quanto lo spettacolo, per ostentare un riflesso individuale di quella autorità. Insomma, la logica non è facile e nessuno ha voglia di insegnarla[1].
Queste straordinarie riflessioni di Guy Debord, tratte dai Commentari a La Società dello spettacolo, fotografano in maniera incredibilmente profetica l’indiscutibile processo di decadenza che la psicoanalisi lacaniana italiana (non tutta, per fortuna) sta attraversando, a causa del suo progressivo ingresso nell’industria culturale, sempre più al servizio — come noto — di quella dello spettacolo. Negli ultimi anni, in effetti, l’uso mediatico (disinvolto, semplificato e seduttorio) dei suoi concetti gli è valso la conquista di nuovi spazi sociali e politici. In un’epoca nella quale il ‘religioso’ è tornato ad essere il rassicurante rifugio per le disorientate folle alla ricerca della “coincidenza del tutto con il tutto”[2], la tentazione di rispondere a tale angosciata richiesta di senso con il proprio sapere ha avuto, in qualche collega, il sopravvento. Ed ecco, allora, la formidabile trasformazione dell’analista in saggio, in esperto puntualmente convocato nei talkshow, in commentatore mainstream dei fenomeni sociali, in editorialista tanto improvvisato quanto accreditato dal pensiero politically correct. Miscelando astutamente i temi più sentiti dall’opinione pubblica con selezionati estratti della dottrina analitica, lo psicoanalista vedette (mutuo il termine dal glossario debordiano) ha progressivamente diluito lo spessore concettuale di quest’ultima nel magma superficiale del qualunquismo culturale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti (di tutti coloro, ovviamente, non incantati dalle movenze suadenti del Pifferaio magico): ricorso abusivo al corpus teorico-clinico psicoanalitico per spiegare la psicopatologia dell’avversario politico, per catalogare diagnosticamente ogni forma di dissenso, per indicare come svolgere bene il proprio ruolo sociale, familiare, civile, come cavarsela nelle dinamiche amorose, e così via. In sostanza, la messa al guinzaglio del magistero di Lacan e la sua conseguente mutazione in un catechismo ammantato di culturame.
Il portamento intrigante e ispirato dello psicoanalista social (tipica postura dell’aspirante maître a penser), finisce così con il suggellare e consolidare la credenza nevrotica nell’esistenza dell’Altro (incarnato, questa volta, nello psicoanalista stesso) e nel suo potere di giustificare, con le ‘parabole’ che enuncia, l’insensatezza della vita dei suoi seguaci. Come non vedere in tutto questo il rischio che Lacan denunciava già nel Seminario VI, quando si dichiarava sorpreso della “implicita adesione dell’analista a quello che possiamo chiamare un sistema di valori, il quale, pur essendo implicito, è nondimeno presente”[3]? L’analista — aggiungeva Lacan — non deve incarnare alcuna forma di ideale. Egli è — ribadiva con forza — uno specchio senza bagliori che mostra una superficie in cui non si riflette nulla. Al contrario, l’analista gradito ai media ama esporre la propria visione del mondo, ignorando il destino al quale lo stesso Lacan condannava i colleghi politicamente schierati: quello di essere fool, se di sinistra, o knave, se di destra. Sentenza tanto severa quanto efficace nel descrivere la realtà italiana. Da un lato, lo psicoanalista che prende posizioni pubbliche ispirate ad un progressismo radical con affermazioni di principio prive di conseguenze, che attribuiscono alle sue petizioni, intraducibili sul piano pragmatico, un carattere ‘idiota’ e patetico. Dall’altro, lo psicoanalista tradizionalista, sostenitore della necessità di salvaguardare le categorie morali consolidate, alle quali, tuttavia, personalmente, si guarda bene dall’aderire: per questo, mascalzone e canaglia.
In una specie di caricatura tragicomica, l’ormai celebre (e celebrato) analista di successo diventa il Professore, il Maestro che dispensa agli allievi (divenuti seguaci) il Verbo. Altro che “ignorantia docta”:
La tentazione di trasformare l’ignorantia docta in quella che ho chiamato, non da ieri, un’ignorantia docens è grande — affermava Lacan — perché è nel clima dell’epoca, di questo tempo dell’odio. Che lo psicoanalista creda di sapere qualcosa, in psicologia per esempio, è già l’inizio della sua rovina, per il semplice motivo che nessuno sa granché in psicologia, e la psicologia è essa stessa un errore di prospettiva sull’essere umano[4].
Ciò che sta accadendo in Italia enfatizza, nel parossismo delle sue manifestazioni e nella gravità delle sue conseguenze, la delicata questione del rapporto che lo psicoanalista intrattiene con la Polis: in che modo il suo sapere (che deriva dalla sua formazione personale e dalla propria attività clinica) può essere utile alla Città? Può, cioè, il materiale che egli ricava dalle analisi personali (dunque, intime e private), trasferirsi sul piano pubblico? Può egli sentirsi autorizzato a parlare di tutto, di questioni amorose, familiari, sociali, dei labirinti inestricabili delle pulsioni sessuali così come di politica, del rapporto con la morte, dell’impegno civile e via dicendo? Rischiando, magari, di fare “della psicoanalisi una specie di farmaco sociale”[5]? O di “lasciarsi andare a ridurre la psicoanalisi alla psicologia generale”[6]? Come può conciliarsi, in altre parole, la sua posizione di ‘specchio senza bagliori’ (all’interno del percorso analitico) con una posa pubblica schierata che esibisce elementi della propria vita privata?
Sembra, allora, che, una volta ancora, l’Italia sia destinata a confermare la propria vocazione ad essere una sorta di ‘laboratorio’[7], di ‘anteprima’ internazionale, di incubatrice di possibili derive che, in questo caso, riguardano il futuro (incerto) della psicoanalisi, quando questa si fa troppo ammiccante e “megafono delle potenze conformanti”[8]. Il rischio è chiaro: il grande consenso che la psicoanalisi ottiene presso coloro che credono di elevarsi culturalmente frequentando (come spettatori) un pensiero ritenuto ‘nobilitante’, comporta, inevitabilmente, la rinuncia alla complessità della sua teoresi e, conseguentemente, la sua definitiva scomparsa. In una specie di Canto del cigno, allora, quella che a molti appare come la sua massima espansione nel tessuto culturale del Paese viene a coincidere con il suo ultimo segno di vitalità: la sua popolarità finisce con il corrispondere al degrado populistico che ne decreterà inevitabilmente la fine. La sua ambizione ad essere attuale, al passo con i tempi, pienamente sintonizzata sulle mutazioni socio-antropologiche che descrive la espone, infatti, al pericolo di entrare in un’ambivalente (nel migliore dei casi, inconsapevole) risonanza di intenti con il sistema che vorrebbe smascherare. La denuncia che ad esso muove — ed in questo, l’insegnamento della Scuola di Francoforte resta davvero insuperato — si configura, in effetti, come l’involontaria adesione al ruolo che il sistema stesso le attribuisce, affinché la sua vera potenzialità ‘eversiva’ venga disattivata. Una volta entrato nel campo dello spettacolo e dell’industria culturale, ogni contenuto — per quanto, all’apparenza trasgressivo e anticonformista — non può che piegarsi alla logica che lo ha accolto: lo psicoanalista che cede alle lusinghe della popolarità mediatica e che rivendica il suo impegno social in nome della diffusione della psicoanalisi e del suo messaggio (presunto ‘in controtendenza’), contribuisce a fare della psicoanalisi stessa un nuovo oggetto del mercato, il cui valore verrà misurato – come qualunque altro oggetto di consumo – in termini economici (vendita di libri, aumento di richieste di cura e di partecipazioni al circo mediatico, organizzazione di eventi culturali, ecc.).
L’analista — ci ricorda Lacan — è un sofista, non un filosofo.
Non è semplicemente perché ignoriamo troppo la vita del soggetto che non possiamo rispondergli se è meglio sposarsi o non sposarsi nella tal circostanza, e che saremo, se siamo onesti, portati al riserbo — ma è perché il significato stesso del matrimonio è per ciascuno di noi una questione che resta aperta, e aperta in modo tale che, quanto alla sua applicazione a ogni caso particolare, non ci sentiamo in grado di rispondere quando siamo chiamati come direttori di coscienza”[9]. L’analista “rinuncia a ogni presa di posizione sul piano del discorso comune, con le sue profonde lacerazioni, quanto all’essenza dei costumi e allo statuto dell’individuo nella nostra società[10].
Egli deve escludere dalla sua azione pubblica che la psicoanalisi, arrogandosi il diritto di intervenire “nelle cosiddette relazioni umane, […] attraverso i mass media, insegni agli uni e agli altri come comportarsi per avere la pace in famiglia”[11], la possibilità di intromettersi nelle “cosiddette relazioni umane”. Non c’è nessun dubbio su quella che deve essere la posizione dell’analista nell’agorà :
Gli analisti devono forse spingere i soggetti sulla via del sapere assoluto, educarli su tutti i piani, non soltanto in psicologia, affinché scoprano le assurdità in mezzo alle quali vivono abitualmente, ma anche le assurdità nel sistema delle scienze? No di certo[12].
Credere di sapere è, dunque, la rovina dello psicoanalista, che, in tal modo, abdica al suo compito fondamentale, che “non è di guidare il soggetto verso un Wissen, un sapere, ma sulle vie di accesso a tale sapere”[13]. Come essere più chiari?
Ma allora — si potrebbe obbiettare — l’analista è condannato a rintanarsi nel proprio studio, nel suo ‘splendido isolamento’, impossibilitato a pronunciarsi sulle questioni che, dal proprio osservatorio, rileva nel mondo che lo circonda? Non può che restare confinato nella torre d’avorio all’interno della quale riceve coloro che soffrono, impedendosi di prendere parola e intervenire nel dibattito pubblico? Egli, in sostanza, deve considerarsi escluso dalla scena politica? Perché mai non potrebbe mettere a disposizione della Polis il proprio sapere?
La specificità del sapere dello psicoanalista, in effetti, risiede nella specificità dell’oggetto che studia: l’inconscio. Il suo è, esclusivamente, un sapere sull’inconscio. O meglio, sul funzionamento dell’inconscio. I suoi studi, la sua formazione, la propria analisi e l’ascolto quotidiano dei suoi pazienti lo rendono sensibile alla manifestazione delle formazioni dell’inconscio. Egli sa che il sintomo che assedia il suo analizzante è una specie di Giano bifronte, significato di un significante rimosso, per un verso (e, dunque, vettore di un messaggio indirizzato all’Altro), nucleo irriducibile di un godimento che si oppone alla sua risoluzione, per l’altro. Egli sa che il sintomo fa soffrire ma, contemporaneamente, assicura una soddisfazione irrinunciabile perché l’essere umano può trovare soddisfazione in ciò che lo insoddisfa. Sa che la struttura del soggetto è determinata dall’Altro e che, di conseguenza, il soggetto è parlato, agito e goduto. Sa anche che è con la forza costante della pulsione che l’analizzante deve fare i conti e che il suo conflitto non risiede semplicisticamente nell’attrito tra le proprie esigenze e quelle della civiltà, ma, ben più drammaticamente, tra due forme di desiderio che albergano in lui: il desiderio di essere amato e riconosciuto (desiderio che lo porta a piegarsi alle richieste dell’Altro) e il desiderio di affermarsi come separato, il desiderio di essere, il desiderio rimosso e inconscio. Sa anche che — come affermava Freud — la psicologia del soggetto è di per se sociale, che il campo psichico contiene tanto l’individuale quanto il collettivo, tanto il soggettivo quanto il comunitario: e che solo il soggetto della parola può costruire un discorso capace di istituire uno spazio di comunità.
Il sapere che lo caratterizza, insomma, egli lo ricava da ciò che ascolta, dunque dalla cura e dall’attenzione che sa riservare alle sfumature, ai dettagli, ai micro-eventi che segnano fatalmente le esistenze dei suoi pazienti. Un sapere del particolare, un sapere sul particolare: che, tuttavia, lo illumina sulle dinamiche relazionali che lo hanno generato, riverberandosi, di conseguenza, sul piano sociale.
Ma il sociale — che lo psicoanalista conosce e studia — non è il politico: i due ambiti non sono in alcun modo sovrapponibili. L’analisi che l’analista riserva ai fenomeni sociali è compiuta da una punto di osservazione particolare: egli guarda il mondo dalla finestra del proprio studio, dentro il quale, (e solo dentro il quale) opera in quanto analista. L’eventuale dimestichezza con una sorta di sociologia che gli deriva dall’ascolto delle persone che si rivolgono a lui non lo autorizza certamente a pensarsi nella funzione di governo dell’umano. Un conto, infatti, è l’analisi del fenomeno sociale (sul quale può evidenziare anche un certo talento), un conto è l’individuazione e la proposta di soluzioni da applicare alla vita della città, ovvero, l’esercizio del potere che a questa funzione inevitabilmente si associa. L’analista è tale – potremmo aggiungere – solo dentro il suo studio. Fuori, il suo sapere non è operativo: l’analista non ha il sapere per ‘curare’ la Polis. Se si mette a farlo – il che è, sia chiaro, assolutamente legittimo — lo può fare solo utilizzando il sapere di altre discipline (la storia, la filosofia, l’economia, la geopolitica, ecc.) ben più attrezzate allo scopo. Dunque, non in quanto analista. La consapevolezza che non possa essere il proprio sapere ad orientarlo nella definizione del suo eventuale progetto politico deve caratterizzare il suo operato, allorché intende interessarsi alla Città. Non è l’impegno politico dello psicoanalista a costituire un problema: il problema si presenta quando il suo specifico sapere — che è, lo ripeto, il sapere sull’inconscio — viene utilizzato per mettere in atto quello stratagemma volto ad ottenere consenso, che qualunque lettore di Freud conosce bene: la suggestione del transfert. Freud descrive il potere di fascinazione attraverso cui il leader attrae le masse, tanto più quando, in periodi storici di trasformazioni e riconfigurazioni economico-culturali (il nostro, ad esempio), la domanda di sicurezza, di certezze e di sapere (che punta a colmare il vuoto angosciante di uno smarrimento esistenziale) incontra un’offerta di senso che attribuisce al discorso di chi lo tiene il carattere di ‘pastorale’ psicologica, dei cui rischi Lacan ci ha più volte avvertito.