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Da qualche anno la teoria e la pratica lacaniana sono oggetto di una lettura il cui scopo è quello di collocare sulla scena dell’accadere storico lo psicoanalista in posizione di novello maître, di rifondatore del legame sociale, novello Machiavelli, consigliere del Principe, nella supposizione che il suo sapere sia in grado di suturare “in ultima istanza” il campo della fondazione tanto delle soggettività individuali, quanto di quella delle formazioni sociali e politiche. “Restaurare il padre”[1], affinché la socialità possa beneficiare del potere ordinante del simbolico, affinché si possa tornare a leggerla alla luce dei rapporti teorici che la tradizione ci ha consegnato: questo l’implicito di uno stile d’analisi sempre più diffuso e popolare, che si tende a legittimare per il tramite del ricorso all’opera di Lacan. Questa prospettiva, caldeggiata — a dispetto delle dichiarazioni d’intenti — non senza una certa venatura nostalgica da autorevoli interpreti, si autorizza sulla scorta di una diagnostica preliminare dello stato presente delle cose[2]: la realtà contemporanea vedrebbe l’emergere di economie psichiche segnate da debilità, che invocano un intervento, in cui lo psicoanalista gioca il ruolo di maître, di ispiratore del legislatore, se non legislatore in prima persona.
Se la psicoanalisi si struttura nel confronto con il rimosso sociale, qui si tratta di giocare la carta della restaurazione di un ordine simbolico costruito sul primato del padre, la cui effettività si presuppone, e lo si fa al fine di limitare la ‘tossicità’ del legame sociale moderno e, quindi, con lo scopo di ridare intellegibilità a quelle “formazioni sintomatiche” che la ‘liquidità’ del nostro tempo rende difficilmente classificabili nel campo clinico così come in quello criminologico. Si assiste, allora, al tentativo di riportare il vivente nei quadri di una soggettività epistemica, alla quale la realtà contemporanea si sottrae in modo quasi sistematico. Violenza non giustificata e gratuita, psicosi ‘ordinarie’, disturbi border-line di personalità, problematiche dell’alimentazione, sintomi psicosomatici, depressione, dipendenze sempre più accentuate da sostanze, oggetti di consumo e da pratiche, nella loro indecifrabilità si costituiscono alla stregua del correlato psicopatologico di una precisa impossibilità, quella, sperimentata in sede penale, di classificare gli individui che si macchiano di determinati reati, riportandoli all’interno di una tradizionale categoria: quella di responsabilità.
Esemplare, in questo senso, il punto di vista di Melman, per il quale l’esito della critica degli effetti del “discorso del capitalista” è quello di rendere auspicabile il ritorno del patriarcato[3]: l’attualità, con tutto il suo inquietante carico di indecifrabilità, non costituisce il pungolo di una ripresa di tipo critico-decostruttivo della nozione di persona (sia nel campo psicopatologico che in quello del diritto), tale da individuare i limiti della sua costituzione e quelli della sua applicabilità in quanto finzione, ma si auspica la messa in opera di un rinovellato “potere simbolico” per riannodare, a livello dell’istituente, una forma determinata, alle realtà sociali attuali, in nome di un unico imperativo sociale: creare le condizioni di un nuovo riannodamento, costruito intorno a questa persistente nostalgia per un padre assente dalla scena contemporanea.
Questa proposta politica intende coniugare un conferimento di spessore simbolico all’area che presiede i poteri istituenti, in grado di conferire significato, ad una progressiva tabuizzazione della società. Dei ‘tabù’, primo tra tutti quello dell’incesto, si considera come punto di partenza una lettura empirica, in virtù della quale, nella contemporaneità, essi sarebbero destinati ad un’estinzione, finalizzata alla libera circolazione dell’energia libidica. Contro questa deriva, i tabù non andrebbero superati, ma, al contrario, l’esperienza dell’interdizione edipica sarebbe da implementare e da rafforzare con gli strumenti della politica, affinché si riattivi ua sua funzione precisa (che, lo ribadiamo resta sempre un’ipotesi che funziona in un ben preciso dispositivo): quella di produrre desiderio. L’imperativo è: tabuizzare la società, costruire un nuovo senso del limite, a partire dalla costruzione progressiva di tabù, con la precisa finalità di conferire nuovo spessore e nuova linfa alla vita civile e alla politica, sfera predica in senso teologico. Quanto sostiene Moroncini in un suo saggio dedicato al rapporto tra la dimensione del discorso psicoanalitico e la necessità che l’attribuzione soggettiva avvenga attraverso la subordinazione del sapere soggettivo ad un significante che assuma la posizione di “significante maître”, è, sul punto qui al centro della nostra attenzione, assolutamente stringente :
Chi oggi si lamenta per la scomparsa del significante maître, cui attribuisce retrospettivamente il compito di porre un freno al godimento sfrenato e senza regole che ne caratterizzerebbe l’attuale situazione storica, scambiando in tal modo il significante maître per il super-io, tradisce di fatto, anche quando se ne fa paladino, il discorso analitico per il fatto di aspettarsi da quest’ultimo non un nuovo significante maître, ma il ripristino di quello precedente[4].
In Italia, sono i contributi di Recalcati ad esemplificare posizioni di questo tipo: Cosa resta del padre? I tabù del mondo, Contro il sacrificio[5] costituiscono, letti sinotticamente, il manifesto di un programma più politico che scientifico, in cui lo psicoanalista, abiurando alla posizione che gli compete, parte dall’indignazione moralistica per assegnare alla pratica psicoanalitica il compito di « rabberciare un legame sociale democratico messo a rischio dalle istanze narcisistiche e individualistiche »[6], finendo col vestire i panni del maître, quelli di un “supposto potere” che trova la sua ratio in una « certa nostalgia del padre, la cui autorità rappresenterebbe l’unico argine alle spinte della dissoluzione »[7].
Negli scritti di Recalcati, in particolare ne I tabù del mondo, si tiene per paradigmatica la posizione espressa da Paolo di Tarso nella sua Lettera ai Romani, in virtù della quale, a partire dall’istituzione della Legge, il desiderio dell’uomo verte su ciò che è stato interdetto dalla comandamento divino, senza la benché minima interrogazione della misura in cui la Lettera paolina costituisca un rimaneggiamento del sistema di quei tabù, propri delle società precedenti le società non inscritte, né iscrivibili nella storicità: la civiltà occidentale considera se stessa storica a partire dalla crocifissione di Cristo. Una volta estratta e assolutizzata una determinata funzione, la promozione dell’alleanza tra Legge e desiderio[8], il dispositivo paolino non è considerato come istituito, e riletto alla luce delle categorie dell’antropologia psicoanalitica, ma come istituente. Quest’analisi, motiva un progetto politico, in cui la società non è più un dato da leggere alla luce di categorie sempre rivedibili in sede teorica, quanto, al contrario, un’entità da riportare ad intellegibilità sulla base di categorie di cui si presuppone il possesso. Perché, ci domandiamo una lettura così povera del fenomeno del tabù e delle sue funzioni regolatrici, tanto rispetto alla vita sociale, quanto rispetto a quella individuale? Si invoca il ritorno sulla scena della “forma legge”, dopo la sua crisi, che nel secolo scorso è stata anche la crisi dello Stato liberale, crisi in virtù della quale, la pretesa ‘purezza’ di questa fonte sarebbe scaduta ad atto amministrativo, essendo nella condizione di regolare non la cittadinanza in quanto tale, quanto, piuttosto, secondo le esigenze dello Stato sociale, classi determinate di cittadini (impiegati, operai, studenti, pensionati, etc…). L’ingresso delle masse sulla scena della storia ne impone la regolazione, e la legge, da “verbo perfetto di Dio”, avrebbe per-vertito se stessa, e, da regolazione che traduce la sovranità popolare in atto imperativo, si sarebbe trasformata in semplice strumento di regolazione sociale. Si associa, non senza un’inflessione moralistica, questa importante trasformazione, che concerne il diritto positivo, ad una trasformazione del regime paterno, che, dal punto di vista simbolico, le sarebbe presupposta: l’ipotesi dell’”evaporazione del padre”, dell’eclisse del padre “in carne ed ossa”, il cui compito storico sarebbe stato quello di incarnare la legge paterna e, a sua volta, la trasmissione simbolica, coniugandola con elementi materiali, è qui funzionale a rendere ragione di una regime di regolazione normatività generalizzante, arida, senza tempo, senza scansione, che può generare, a sua volta, un potere repressivo ancora più capzioso, in cui la “posta in gioco” sarebbe, biopoliticamente, la “nuda vita”. Ecco, dunque, le linee generali di un nuovo progetto politico, di cui la psicoanalisi (o, almeno, quella che si autorizza da sé in questo senso) si fa corifea: riabilitare, non in sede di jus conditum, ma di jus condendum una nuova declinazione del padre, affinché la sovranità politica, da astratta e, in questo senso, ordinamentale, si coniughi con la singolarità, riesca a prendere in carico, costituendolo, il desiderio di ciascuno.
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Bisogna riconoscere a Markos Zafiropoulos[9], autore di testi di grande rilievo (oltre a Lacan et les sciences sociales, cit., ci limitiamo a ricordare Lacan et Lévi–Strauss, Puf, Paris 2003, La question féminine de Freud à Lacan, Puf, Paris 2010), fondatore e presidente del prestigioso Cercle international d’anthropologie psychanalytique, il merito di essere non solo tra i più autorevoli lettori di Lacan, quantanche lo psicoanalista che, probabilmente più di ogni altro, ha intravisto la necessità di intendere nella sua portata politica il “ritorno a Freud” di Lacan, operato attraverso l’assunzione del paradigma strutturalista in antropologia e in linguistica. Zafiropoulos, infatti, ci ha reso sin da subito e senza esitazione edotti circa la necessità di guardare con “sospetto”, sulla scia di Freud e Lacan, alla misura in cui quell’”ideale dell’io”, erede della logica totemica, è ingaggiato nelle formazioni sociali, cogliendo la potenziale tossicità di questa presenza, tutt’altro che pacificante: da qui l’importanza dell’acquisizione degli strumenti concettuali messi a disposizioni dalla ricerca strutturalista in antropologia.
A rendere in un certo senso necessaria la pubblicazione in italiano di Lacan e le scienze sociali di Markos Zafiropoulos, più che la “volontà buona”, kantianamente intesa, dei curatori, e, soprattutto, dell’editore italiano, vi è stata dunque la necessità oggettiva di riportare al centro del discorso l’ipotesi strutturale di Lacan, mostrandone l’attualità ed evitando disinvolte scivolate nella direzione della riedizione tanto di un simbolico pacificante, spesso identificato con la legge positiva, così amato da tanti filosofi del diritto, quanto di una figura paterna ritenuta in grado di ordinare, riorientandole, posizioni soggettive e formazioni sociali. Lacan e le scienze sociali, infatti, ripercorre, commentandola con ineccepibile rigore filologico, la produzione giovanile, i primi scritti di Lacan, evidenziando la grande apertura alle scienze sociali, che ne iscrive la ricerca nell’ambito dell’antropologia e della sociologia del suo tempo, e che lo porta, in quella fase, a fissare l’attenzione sulla famiglia, nella convinzione che esistano rapporti necessari tra costrutti sentimentali della famiglia e complessi inconsci.
Zafiropoulos mostra, con grande maestria e rigore filologico-concettuale, come i lavori precedenti l’avvicinamento di Lacan allo strutturalismo siano fortemente debitori al tentativo di aprire a quegli sviluppi socio-antropologici della prima metà del ‘900 ancora fortemente irretiti nella logica positivistica, ossia imbevuti di un’acritica referenza all’organicismo, sia dal punto di vista scientifico, che politico. In particolare, Lacan e le scienze sociali rende intellegibile la misura in cui alcune formazioni di personalità siano lette nel giovane Lacan alla luce di un certo deficit nella capacità della struttura familiare di veicolare strutture simboliche. In molti punti delle sue ricostruzioni anteriori al suo “ritorno a Freud”, Lacan scioglie il nesso tra individuo e gruppo di riferimento, centrando la sua analisi sulla famiglia, quale entità empiricamente intesa, al punto che svezzamento, intrusione ed Edipo, che possono essere intesi come corrispettivo degli stadi evolutivi della pulsione in Freud, sono rubricati come “complessi familiari”[10]. Quella che Zafiropoulos evidenzia è una prospettiva in cui la famiglia, intesa come deficitaria quanto alla figura del padre, sia stata interpretata come potenzialmente patogena, e come quest’ipotesi sia stata rilevante sia in psicopatologia che in criminologia. Si tratta di una chiave di lettura che trova certamente un solido riferimento in Freud, e Zafiropoulos evidenzia con grande rigore la misura in cui il padre come ideale normativo occupi parte rilevante della sua costruzione teorica, ma anche in quell’antropologia che ritiene che la modernità inveri una riedizione di quell’ipotesi matriarcale, che si presuppone anteriore se non originaria rispetto all’avvento della cultura patriarcale.
A Lacan e le scienze sociali, però, va ascritto anche un altro merito, oltre a quello di aver ben saputo commentare e contestualizzare i lavori di Lacan che precedono il suo “ritorno a Freud” nel quadro del dibattito delle scienze sociali del suo tempo: quello di fornire una chiave di lettura politica di questo dibattito. In particolare, Zafiropoulos mostra quanto all’idea di un progresso disfarsi della famiglia all’interno delle dinamiche novecentesche sia sottesa una nostalgia passatista, intrinseca all’auspicata prospettiva di una ricomposizione ‘organica’ del sociale, e, soprattutto, della famiglia all’interno della società civile. Lo psicoanalista fa valere la sua vasta e profonda conoscenza dei classici della sociologia e associa la teoria dell’impoverimento simbolico della famiglia in Durkheim alla nostalgia passatista e patriarcale di Le Play, e qui fanno da guida e da sfondo teorico i lavori della Scuola di Francoforte sull’autorità e la famiglia, ingegnere-sociologo che le cui analisi sono tutte imperniate sulla figura del padre come moralizzatore delle classi lavoratrici. Ai risultati della ricerca durkheimiana, profondamente imperniati sulla trasformazione del diritto in Francia, e quindi, sull’evoluzione codicistica della famiglia transalpina, si oppongono i risultati della Scuola di Cambridge, che smonta l’illusione familiare-familista di parte della cultura mitteleuropea del secolo scorso, da Restif de La Bretonne a Charles Fourier, da Saint-Simon a Mirabeau, che ha condensato l’ordine naturale, il sacro, nella legge del padre, conferendo ad esso una valenza universale che non le apparterrebbe[11]. Due capitoli, il quarto e il quinto, sono dedicati ad un’attenta disamina teorico-empirica sull’evoluzione e sul dibattito inerente allo statuto della famiglia in Europa, mentre il sesto ed ultimo capitolo analizza le linee della conversione lacaniana allo strutturalismo, inclusiva dell’invenzione della metafora del “Nome del Padre”, datata 1953.
Nella prospettiva qui delineata sulla base della così autorevole ricerca di Markos Zafiropoulos, cosa resta dell’”evaporazione del padre”? Il tema dell’”evaporazione del padre” è trattato da Lacan un’attitudine che non è nostalgica: quando, nel 1968, nel corso del Congresso dell’École freudienne de Paris, viene chiamato ad intervenire su un tema così delicato come quello del rapporto tra psicoanalisi e storia, appone una nota al contributo di De Certeau[12], il cui titolo recita Ce que Freud fait de l’histoire, che riprende e rilegge un importante testo freudiano, Una nevrosi demoniaca nel secolo decimosettimo[13]. In quest’occasione, aggiunge una breve nota all’intervento di De Certeau che aveva parlato di sostituti del padre, con riferimento, chiaramente interpretabile sull’asse Hegel-Kojève, alla Società delle Nazioni. Lacan innanzitutto ribadisce la necessità di pensare l’Edipo (che già in Freud si presenterebbe in una forma tutt’altro che univoca) in rapporto alle condizioni sociali di riferimento, e poi differenzia sostituti e sostituzioni del padre. In particolare, evidenzia come, nell’epoca di quella che lui definisce “evaporazione del padre”, le società a lui contemporanee si caratterizzino non tanto per la loro tendenza all’omologazione, ma che l’universalizzazione del pivot paterno (correlato della sua evaporazione, che non tradurremmo come globalizzazione, dal momento che qui in gioco è, appunto, l’universale più che non il generale) comporti « […] una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere. Cosa – aggiunge Lacan – che rende conto della straordinaria sterilità di quanto può accadere in questo campo »[14].
Si tratta, allora, di opporre le ragioni del rigore teorico, dell’anteriorità temporale e della preminenza logica dell’oggetto della ricerca rispetto alla teoresi, ad una lettura dell’ipermodernismo ‘liquido’, se non matriarcale delle società contemporanee. Di fronte all’attuale configurazione dei “nuovi sintomi”, una parte della critica, in Francia come in Italia, si schiera a favore della restaurazione di forme di autorità, e, prima tra tutte, quella del padre, in aperto conflitto con ciò che si crede possa indebolire l’ordine simbolico, di cui, evidentemente, si presuppone la manipolabilità. Al centro, non si situa più il padre concreto come effetto della funzione fallica, di cui indagare la declinazione storica, ma si attua una strategia inversa: paternalizzare per ordinare funzionalmente. Ciò che si invoca, in questa sede, e che ha motivato la traduzione in italiano di Lacan e le scienze sociali, è la ripresa critica di un rapporto tra struttura simbolica e sua attualizzazione storica, che non misconosca, da un lato, il decentramento essenziale che impone la nozione stessa di struttura rispetto alla posizione di attore sociale e politico, e che, dall’altro, sia in grado di affrontare la contemporaneità a partire da un impianto teorico che sia omogeneo all’ispirazione strutturalista di Lacan, senza che ci si autorizzi (o, peggio ancora, che qualcun altro ci autorizzi) a fare della teoria il pivot di una ristrutturazione politico-sociale, che mancherebbe il compito essenziale di ogni psicanalista di fronte alla società: quello di leggere criticamente il proprio tempo, diagnosticandolo.
[1] Per una ricostruzione critica di questo movimento, cfr. M. ZAFIROPOULOS, Du Père mort au déclin du père de famille. Où va la psychanalyse?, Paris, Puf, 2014.
[2] Come evidenza, in maniera pertinente, Franco LOLLI (Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi ‘domandanti’, Poiesis Editore, Alberobello (Ba) 2019, p. 11: « La richiesta che l’analista si trova a ricevere è sempre più spesso descritta come richiesta generica di aiuto, di indicazioni, di prescrizioni, di sostegno, di comprensione, di risarcimento per i presunti torti subiti. Oppure, come una domanda di ausili (farmaci, in primo luogo) capaci di sedare la sofferenza, senza alcun impegno di elaborazione soggettiva: una domanda persino deresponsabilizzata e caratterizzata dalla passività stagnante di chi la formula. Un tipo di domanda, allora, che mette l’analista, formato all’insegnamento di Sigmund Freud, in una posizione inusuale, sollecitandolo ad una postura che non gli è tradizionalmente propria ».
[3] Ch. MELMAN, L’uomo senza gravità, Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2010, p. 110-11.
[4] B. MORONCINI, Lacan Politico, Edizioni Cronopio, Napoli, 2014, p. 84.
[5] M. RECALCATI, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano, 2011; I tabù del mondo. Figure e miti del limite e della sua violazione, Einaudi, Torino, 2017 ; Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina, Milano, 2017. Per quanto Recalcati sostenga che, a proposito del primato del padre nella strutturazione del legame sociale in generale e familiare in particolare: « Non si tratta però, di rimpiangere il suo regno né di decretarne la sparizione irreversibile » (Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit., 15), l’assunzione normativa e idealizzante del paradigma della cultura ebraico-cristiana appare, qualche pagina dopo, in tutta evidenza. Il tempo attuale è oggetto non di analisi ma di una critica moralistica, il cui tenore è di non essere all’altezza di un tempo originario, immaginato come in grado di promuovere un’alleanza organica tra Legge e desiderio; infatti: « Nella prospettiva di Lacan, la Legge e il desiderio sono uniti da un comune riferimento all’impossibile. L’interdizione della Cosa materna, che la Legge della castrazione stabilisce, apre al movimento del desiderio. Il testo biblico e il testo freudiano-lacaniano condividono questo richiamo forte all’alleanza tra Legge e desiderio. Ma il tempo ipermoderno azzera nichilisticamente ogni fondamento etico di questa alleanza, mostra la totale inconsistenza di ogni ideale e, di conseguenza, dissolve il Nome-del-Padre come funzione simbolica in grado di arginare il godimento maledetto della Cosa e di promuovere l’unione tra Legge e desiderio », ivi, pp. 19-20. Su posizioni più accorte filologicamente, ma sostanzialmente sinottiche a quelle di M. RECALCATI, C. LICITRA-ROSA, “Padri e figli. Per un bilancio teologico sulla Chiesa e il mondo: 1968-2018”, in Amore e altri scritti, a cura di Francesca Marelli, Pan di Lettere, Roma, 2019, p. 237-261.
[6] B. MORONCINI, Lacan Politico, cit., p. 15, nota 6.
[7] Ibidem.
[8] Per un punto sulla questione così discussa del rapporto tra desiderio e legge, cfr. F. CIARAMELLI, S. THANOPOULOS, Desiderio e Legge, Mursia, Milano, 2016.
[9] Markos Zafiropoulos, psicoanalista e sociologo, è autore di testi di grande rilievo (oltre a Lacan et les sciences sociales, cit., ci limitiamo a ricordare Lacan et Lévi –Strauss, Paris, Puf, 2003, La question féminine de Freud à Lacan, Paris, Puf, 2010) è stato fondatore ed è presidente del prestigioso Cercle international d’anthropologie psychanalitique, che ha sede ed è attivo a Parigi. Per una definizione delle problematiche oggetto del presente intervento, cfr. M. ZAFIROPOULOS, Du Père mort au déclin du père de famille. Où va la psychanalyse?, Paris, Puf, 2014.
[10] In questo senso, per Lacan: « Le connessioni della paranoia con il complesso fraterno si manifestano nella frequenza dei temi di filiazione, di usurpazione, di spoliazione, così come la sua struttura narcisistica si rivela nei temi più paranoidi dell’intrusione, dell’influenza, dello sdoppiamento, del doppio e di tutte le trasmutazioni deliranti del corpo. Queste connessioni si spiegano, in quanto il gruppo familiare, ridotto alla madre e alla fratria disegna un complesso psichico in cui la realtà tende a rimanere immaginaria o tutt’al più astratta. La clinica mostra che effettivamente il gruppo così decompletato è molto favorevole allo schiudersi delle psicosi e che vi si trova la maggior parte dei casi di delirio a due », J. LACAN, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, cit., p. 31.
[11] Per una corretta ricostruzione teorica dell’assai complessa questione del rapporto logico e storico, intercorrente tra religione e paternità, cfr. Joseph MOINGT, “Religion et paternité”, Littoral. Revue de psychanalyse, 11\12, febbraio 1984, p. 5-17.
[12] M. de CERTEAU, Histoire et psychanalyse entre science et fiction (1987), trad. it., Storia e psicoanalisi: tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
[13] S. FREUD, Eine Teufelsneurose im siebzehnten Jahrhundert (1922), trad. it., Una nevrosi demoniaca del secolo decimosettimo, in Ossessione, paranoia e perversione. L’uomo dei topi, il Presidente Schreber e altri scritti, con Introduzione di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1988, p. 357-399.
[14] J. LACAN, Nota sul padre e l’universalismo, in “La psicoanalisi”, 33, 2003, p. 9.